venerdì 23 aprile 2010

Per una nuova scuola a trazione regionale


I nostri bambini hanno il diritto di conoscere in quale contesto culturale sono nati e vivono, hanno il diritto di poter imparare la differenza che passa tra Gesù e Maometto e hanno il diritto, sacrosanto, di poter conoscere le tradizioni dei loro nonni e dei loro antenati.
Tutto questo rappresenta l’educazione che le nuove generazioni devono poter ricevere: i soggetti su cui quest’onere ricade sono la famiglia e la scuola. Queste sono le due più grosse “agenzie educative” del nostro tempo: accanto alla tanto, ingiustamente, bistrattata Chiesa cattolica. Se spesso, purtroppo, è meglio sorvolare sulla qualità e sulla solidità dell’educazione impartita dalla famiglia, è altrettanto opportuno stendere un velo pietoso sulla qualità e sulla serietà dell’educazione impartita dalla scuola.
La disintegrazione progressiva di numerosi nuclei famigliari e l’ideologizzazione patologica dei programmi scolastici ha prodotto nei bambini e nei giovani un senso di confusione culturale e di titubanza verso il futuro davvero preoccupanti.
E’ necessario stamparsi bene nella testa che quello scolastico non è “un” problema, è “il” problema.
Il domani delle nostre terre passa per le capacità e le conoscenze dei nostri figli: i bambini e i giovani di oggi potranno far fruttare domani quel che, ora, stanno ricevendo, in termini di educazione e cultura, dalla famiglia e dalla scuola. Se le dinamiche famigliari non possono essere risolte interamente dalla politica – anche se la politica può e deve fare molto di più a sostegno della famiglia tradizionale – il problema della scuola, al contrario, può e deve essere affrontato e risolto da chi è chiamato a guidare il paese.
Il modello di scuola d’impostazione risorgimentale, centralista e livellatrice è impietosamente fallito sotto tutti i punti di vista: la scuola italiana – a partire dalle elementari, passando per le medie inferiori, giungendo sino alla scuola superiore – mostra, anno dopo anno, tutti i suoi limiti e le sue falle.
Si pensava, nel passato, che la scuola potesse essere uno spazio d’incubazione omologante per i nuovi cittadini italiani: materie di studio identiche dovevano essere imparate da un alunno piemontese e una studentessa siciliana, senza sfumature e senza differenze.
Questo tipo di impostazione centralista e omogeneizzante del sistema scolastico ha impoverito, in un secolo e mezzo di unità d’Italia, le nuove generazioni a livello di conoscenze culturali e tradizionali. Al di là dello studio della matematica e di qualche scienza ritenuta, più o meno, oggettiva è evidente che la volontà di unificare i programmi curricolari scolastici su scala nazionale non può che produrre un enorme vulnus di conoscenze storiche legate indissolubilmente alla dimensione territoriale, sia essa comunale o regionale.
La scuola unitaria italiana, nata ufficialmente dalla Legge Casati del 13 novembre 1859, nasce più con un intento politico che con un intento pedagogico e culturale: la scuola era vista come lo strumento più efficace per avviare quell’italianizzazione culturale che mancava del tutto in un contesto di unità statale sostanzialmente forzata e per nulla sentita dai popoli della penisola italiana.
Al di là della bontà dell’intento di scolarizzazione di tutti i bambini e della guerra all’analfabetismo galoppante, la Legge Casati conteneva già, embrionalmente, tutti i limiti che anche le successive riforme legislative scolastiche (Legge Coppino, Legge Orlando, Legge Credaro) avrebbero evidenziato: una gestione centralista e inefficiente dell’educazione scolastica. Venne poi, nel 1923, la “riforma Gentile”, che disegnò un nuovo assetto scolastico nazionale fortemente plasmato sulle linee guida del fascismo mussoliniano, in cui prevalse la volontà di premiare il merito ma mancò la lungimiranza di riconoscere le culture regionali.
Va detto, ad onor del vero, che la “riforma Gentile” fu una buona riforma per l’assetto istituzionale del periodo in cui fu pensata e promulgata: tant’è vero che, di fatto, l’attuale assetto scolastico italiano si fonda ancora sulle fondamenta gentiliane. Detto ciò, è necessario rimarcare l’anzianità dell’impianto scolastico tricolore: è giunta l’ora di porre nuove basi per la scuola italiana e riuscire a produrre, a dispetto di troppi fallimenti o aborti legislativi, qualcosa di nuovo ed efficiente.
Bisogna tenere conto dei mutamenti della storia e degli sviluppi globali, culturali, sociali ed economici, per riuscire nell’impresa di riprogettare un sistema scolastico che non si fondi più su ragioni ideologiche centraliste ma che sappia, al contrario, riconoscere e valorizzare le identità territoriali e regionali.
La ricchezza e la pluralità delle culture regionali italiane rischia di andare perduta per sempre se non riusciremo nell’intento di trasmettere alle generazioni future il dovuto rispetto e le necessarie conoscenze religiose, linguistiche e storiche legate al territorio di appartenenza.
L’Italia non è fatta da una storia e da una cultura monolitica, ma deve la sua immensa ricchezza linguistica, artistica e tradizionale ad una “summa” di identità territoriali che affondano le proprie radici nei meandri della storia. E’ necessario agire di conseguenza progettando un nuovo sistema educativo fondato anzitutto su due pilastri: l’autonomia scolastica regionale e la trasmissione di un bagaglio culturale fortemente legato al territorio.
Si badi bene che imprimere una forte connotazione tradizionale ed identitaria al sistema scolastico di ogni ordine e grado significa ampliare la libertà d’insegnamento e significa offrire una preparazione culturale di livello molto elevato ai propri giovani. Identità locale e apertura al nuovo non sono affatto da leggere come concetti antitetici: in un mondo sempre più globale è necessario avere una forte e peculiare identità per poter sfruttare al meglio tutte le opportunità che i nostri territori e le nostre culture ci offrono.
In poche parole, ad esempio, lo studio delle lingue regionali non è affatto antitetico all’insegnamento della lingua inglese, oramai indispensabile per destreggiarsi nel mondo moderno. Così come la conoscenza delle tradizioni religiose, artistiche o enogastronomiche locali non è affatto in contrasto con il rispetto delle tradizioni altrui. Non si tratta qui di evocare un alquanto improbabile ritorno al passato: si vuole semplicemente tentare di progettare un futuro solido per le generazioni future.
Il domani delle nostre terre passerà, per forza di cose, dalla qualità dello spirito, della cultura e dell’educazione che scorrerà nelle vene delle future generazioni italiane: è per questa ragione che la scuola, in ogni sua dimensione, assume un’importanza davvero cruciale nell’ottica di un grande progetto riformatore in senso tradizionale e federale dello Stato. E’ per questa ragione che è necessario auspicare l’avvento di un sistema scolastico a forte trazione regionale: un sistema scolastico plurale che sappia riconoscere le fondamentali autonomie regionali, che si fondi sulla parità effettiva tra scuola pubblica e scuola privata e che si basi su graduatorie regionali per l’assegnazione degli incarichi lavorativi ai docenti.
Sarebbe una rivoluzione, è chiaro. Ma è un passaggio ineludibile e fondamentale: soprattutto in un momento critico, come questo, in cui il sistema scolastico italiano si trova a fronteggiare la sfida dell’integrazione di migliaia e migliaia di bambini stranieri: proprio per riuscire a far assimilare la nostra identità culturale più profonda, anche a questi nuovi giovani ospiti, dobbiamo sforzarci di dare vita ad una scuola che sappia trasmettere valori e principi oltreché mere nozioni.
“Tutto ciò che non so l'ho imparato a scuola”, scrisse un sarcastico e simpatico Leo Longanesi: dobbiamo lavorare proprio per evitare di perpetrare l’immagine di un sistema scolastico italiano inefficiente e burocratizzato. Dobbiamo impegnarci per riportare i valori e il merito tra i banchi scolastici.
Non lo dobbiamo fare per noi, ma per le nuove generazioni.

Emanuele Pozzolo

(Articolo pubblicato su "La Padania" di giovedì 23 aprile 2010)

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