domenica 18 aprile 2010

L'Italia? O sarà federale o continuerà a non essere


Ci aspettano mesi di triste retorica risorgimentale, di sfarzo forzato e di lugubri luoghi comuni sull’unità d’Italia. Il 150° anniversario dell’unità italiana rischia di essere un’impietosa carnevalata cara alle forze massoniche e anticlericali che hanno in mano l’establishment pseudo-culturale e salottiero di certa borghesia italiana. Rischia di essere una festa non sentita dal popolo.
Suoneranno le fanfare tricolori, suoneranno le note di una patria che ancora non c’è. Centocinquant’ anni non sono bastati per creare una nazione viva, unita, vera. Tanta burocrazia, parecchie pagine oscure, un’ orrenda guerra civile, un paio di guerre mondiali e una permanente dittatura parlamentar-clientelare: null’altro di rilevante e degno di menzione ha prodotto la storia recente dell’Italia unita. Poco di sublime è stato prodotto dopo il passaggio dei Cavour, dei Garibaldi e dei Vittorio Emanuele.
Eppure lo “stivale” è una terra che ha scritto pagine tra le più gloriose della storia del mondo: dalla Roma imperiale antica, prima pagana e poi cristiana, passando per l’eroica resistenza milanese del Carroccio lombardo contro l’oppressione straniera del Barbarossa, giungendo sino all’impegno anti-islamico del grande beato Marco d’Aviano che, a Vienna nel 1683, contribuì in modo determinate a respingere l’invasione dell’esercito ottomano.
Dovremmo andare fieri della nostra storia e dei personaggi che hanno contribuito a forgiare il carattere e a salvare il sangue dei nostri popoli. Dovremmo riuscire a rivalutare al massimo l’identità profonda, religiosa e storica, che ha contribuito in modo determinante a stagliare l’immagine plurale, ricca e bella di tutte quelle terre che vanno dall’arco alpino fino al più meridionale degli scogli mediterranei.
Molto correttamente Francesco Guicciardini sosteneva, già più di cinquecento anni fa, che l’Italia è la patria del “particulare”: scorre nelle nostre vene quel robusto ed irresistibile amore, tutt’altro che deteriore, per la propria città, per la propria tradizione e per la propria gente.
Qualche incauto osservatore perbenista liquiderebbe, e liquida, questa peculiarità come volgare campanilismo. Molti professoruncoli tardo-risorgimentali credono che l’amore per il proprio “campanile” sia antitetico al bene comune: nient’affatto. Chi non sa amare la sua “piccola patria” non potrà mai essere in grado di costruire una “patria più grande”.
Lo scriveva già, negli anni Sessanta del secolo scorso, il giovane Adriano Romualdi: “Dai patologi esecratori di ogni nazionalismo – nazionalismo come orgoglio, nazionalismo come energia, nazionalismo come coraggio – non può nascere l’autorità e la legittimità d’una nuova, più grande nazione. Né da quelli che han teorizzato la diffidenza verso la patria come tale, l’amore di una patria più grande”.
Quel che è mancato durante l’ottocentesco, forzato, processo di unificazione politica dell’Italia è stato proprio il senso di “patria”: l’obiettivo vero del “risorgimento”, massone e illuminista, era la creazione di un apparato statale ed istituzionale unitario solo in funzione anti-cattolica. Mancava il popolo, mancava la gente durante tutta quella foga “unitaria”: le piccole patrie padane, appenniniche e meridionali vennero calpestate in nome di un progetto ideologico creato a tavolino da uno sparuto gruppo di notabili.
I limiti del risultato raggiunto, dopo la breccia di Porta Pia, sono infatti evidenti ai più: l’Italia è esistita solo nelle sue forme più artificiali ed estetiche. Quel che è sempre mancato è stato quello spirito autenticamente nazionale che, invece, caratterizza molte delle nazioni europee.
Il senso di patria italiano viene fuori solo negli stadi e durante i caroselli di tifosi, in seguito a qualche vittoria della nazionale di calcio: altrove il senso tricolore latita. E la ragione di questa latitanza non è da ascrivere a qualche complotto leghista: semplicemente gli “italiani” prima di sentirsi tricolori si sentono piemontesi, liguri, lombardi, veneti, friulani, emiliani, romagnoli, toscani, marchigiani, abruzzesi, romani, campani, pugliesi, calabri, lucani, siciliani e sardi.
Il senso di appartenenza ad una “patria più grande” non può che passare attraverso il riconoscimento delle differenti identità territoriali e regionali: è una questione di prossimità, di vicinanza, di sangue e di lingua.
Solo sentendoci fortemente ancorati alle nostre radici comunitarie e regionali potremo sviluppare un più responsabile e solidale senso di appartenenza nazionale. Non saranno la retorica né l’imposizione a formare un’Italia nuova e unita. Non saranno gli anniversari più o meno artificiosi a ridare un senso alla sbiadita logica tricolore. Serve il Federalismo.
Serve sviluppare una sensibilità culturale e politica che veda nella pluralità dei territori e delle genti italiane il punto di forza sul quale costruire una nuova patria federale. Dai popoli del Nord si è già levata, fiera, forte e chiara, la voce del cambiamento: la Padania esiste e ha battuto il suo più vibrante colpo politico.
Ora si tratta di riuscire a spiegare anche ai più riottosi ed ottusi centralisti giacobini che l’Italia di domani o sarà federale o non sarà. La gente del Nord ha capito che è necessario difendere, con le unghie e con i denti, la propria identità, la propria famiglia e il proprio lavoro per poter ancora guardare con il sorriso al domani: il Federalismo è l’unica via dalla quale può passare una vera e compiuta unificazione federale italiana.
Padania e Italia non sono entità concettuali e politiche per forza di cose confliggenti: il Federalismo può rappresentare la chiave di svolta del riequilibrio territoriale, economico e produttivo italiano e può fungere da compimento storico della federazione dei popoli e delle regioni d’Italia.
Da una compiuta realizzazione del Federalismo passerà anche la formazione dell’Europa di domani, perché come profetizzò Gianfranco Miglio: “Il ventunesimo secolo per l’Europa è annunciato con le campane a morto e la ragione è che ci si ostina a celebrare un revival. Bruxelles pensa alla comunità di domani come a un grande stato nazionale, ad una versione ampliata e posticcia dei suoi paesi membri. Ma se Maastricht non fa riferimento alle euro-regioni nasce vecchia, già superata”.
Senza Federalismo, senza identità e senza storia, in sostanza, non si va da nessuna parte e non si costruisce nessun futuro. Per questo è ora di muoversi: per costruire il nostro domani, il domani federale.

Emanuele Pozzolo

(Articolo pubblicato su "La Padania" di sabato 17 aprile 2010)

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