martedì 15 marzo 2011

L’Italia s’è desta?


Dal nostro calendario civile sono state espunte, negli anni, festività importanti: la mania secolarizzante della modernità ha soprattutto reciso alla radice il riconoscimento civile di molte festività religiose cattoliche. Ma anche talune date che con in fattore religioso hanno poco o nulla da sparire sono state relegate nell’ambito delle festività in tono minore: basti pensare al 4 novembre, giorno in cui ricorre il felice anniversario della vittoria italiana nella Prima guerra mondiale.
E se alcune date del calendario civile sono state retrocesse da festività ufficiali a semplici giorni comuni, ben altra sorte è incorsa a date dal dubbio rilievo storico. Negli ultimi tempi infatti – come accade in ogni tempo di profonda decadenza – ha preso piede una sorta di “revisionismo da calendario” indirizzato a reinventare i giorni di festa.
Lo fecero già i rivoluzionari giacobini francesi quando, dopo il 1789, mettendo mano al calendario, diedero sfogo alla loro fantasia rinominando i mesi dell’anno, raggiungendo vette di comicità davvero incredibili.
Da sempre nella storia – sia prima sia dopo la nefasta Rivoluzione francese – i detentori del potere ambiscono a controllare il calendario del loro popolo: è una sorta di patologica deriva inconsciamente totalitaria che stuzzica l’orgoglio di certi bizzarri personaggi storici.
Controllare il calendario e le festività della gente deve apparire a certe menti piuttosto perverse come un’indiretta possibilità di controllare il tempo: ed è questa un’antichissima fissazione di ogni specie di “rivoluzionario” che la storia ricordi.
In tempi di crisi anche i “rivoluzionari” perdono tono e paiono molto meno fantasiosi d’un tempo: e così, almeno in Italia, più nessuno oggi vuol modificare il nome ai mesi o attribuire una innovativa e romana conta agli anni che passano. Oramai ci si accontenta d’inventare, di tanto in tanto, giornate di festività del tutto artificiali, retoriche e tronfie.
Uno dei recenti novelli creatori di festività fu Carlo Azeglio Ciampi che – da inquilino del Quirinale – si alzò un bel giorno dal letto decidendo che il 2 giugno di ogni anno l’Italia è in festa e giubila per il fatto di essere una repubblica. E così ogni anno avviene.
Non volendo essere da meno del suo “rivoluzionario” predecessore anche Giorgio Napolitano ha promulgato una leggina che crea un’altra bella festività civile: il 17 marzo è la festa della proclamazione del Regno d’Italia. Altra data che gli italiani – pur anche i più patriottici – non avevano mai salvato nella loro memoria tricolore.
E appena un mese dopo la bizzarra festa in cui tutte le più alte cariche istituzionali repubblicane festeggeranno la nascita di una monarchia nazionale (cosa talmente ridicola da non essersi mai vista nella storia), l’Italia sarà nuovamente in festa. Per cosa? Ma per l’immortale 25 aprile, data in cui non si è mai capito se si festeggia l’apogeo di un’orribile guerra fratricida, se si preferisce giubilare per la sonora sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale oppure per lo scempio vergognoso di Piazzale Loreto.
Di tutte le festività civili italiane l’unica che potrebbe avere un senso davvero profondo e autenticamente patriottico è il 4 novembre: che puntualmente, infatti, viene ricordato in tono minore e passa, ogni anno, senza che nessun italiano più se ne accorga. È in quella data che l’Italia deve ricordare, davvero unita, il sacrificio immane tantissimi giovani che sono stati ammazzati in nome della loro terra, della loro patria e di quel tricolore che, oggi, gli aedi della retorica risorgimentale sventolano inconsapevoli, felici e contenti.
L’inno italiano – proprio quello che accompagna le ripetitive e noiose festività civili italiche – inizia cantando: “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”. Chissà se aggiungere un punto di domanda a questa ottimistica affermazione non sarebbe un buon servizio a questa nostra amata e malconcia patria?

Emanuele Pozzolo