venerdì 12 ottobre 2012

Abbiamo paura: ci spazzeranno via

Oramai è per davvero vomitevole il sudicio “doppiopesismo culturale” con cui vengono letti, commentati e violentati i fatti. L’intellighenzia occidentale – per lo più composta da impotenti radical-chic e da flaccidi cialtroni accademici – persiste a prostituire, in modo sconcio ed indecente, la verità sull’altare della paura. Sì, è così: le “grandi firme” dei più noti giornali occidentali, i pennivendoli che stanno in cima alle classifiche editoriali e gli (pseudo)uomini di (pseudo)cultura che stanno rannicchiati dietro le loro cattedre universitarie, insomma quelli che dovrebbero essere i “pensatori” dell’Occidente, proprio loro, hanno paura dell’odio islamico. E ne hanno una paura estrema. Impauriti e corrucciati come sono – abituati ai comodi sofà dei salotti dell’alta borghesia in decadenza e assai legati ai loro grassi introiti economici – temono per la propria vita: insomma se la fanno addosso. Dicono che l’islam è “la culla della civiltà”, scrivono che “il Corano è un testo magnifico” e starnazzano pubblicamente la quint’essenza dei luoghi comuni più beceri: ma non lo fanno perché non conoscono la verità, lo fanno per paura. Solo per paura. Non si può credere, infatti, che i soloni della modernità non sappiano tutte le porcherie che stanno scritte dentro il Corano, non conoscano la storia violenta e sanguinaria della vita di Maometto e si siano dimenticati di debitamente informarsi sui quotidiani crimini contro l’umanità che, giorno dopo giorno, gli islamici compiono contro ogni persona che essi ritengano essere “infedele”. Tutte queste cose gli aedi del “politically correct” le conoscono fin troppo bene: e, forse, nei loro ristretti circoli, massoni e omosessuali, tali verità trovano spazio, come fossero segreti da mai svelare. Eppure “in pubblico” la verità non può avere l’onore di essere più detta, scritta e divulgata. Bisogna stare attenti a non ferire la “sensibilità” degli islamici: quasi questi fossero innocenti verginelle, non solite a commettere i peggiori abomini! E così ogni atroce massacro perpetrato dai cosiddetti “figli di Allah” (“il misericordioso”, come dicono i musulmani) viene ripulito, dal sangue degli innocenti, sulla base di cantilene divenute oramai insopportabili: una volta l’assassinio di Tizio è giustificato, o quantomeno compreso, dal fatto che alcune vignette di Caio avrebbero offeso la sensibilità (bigotta e ridicola) degli islamici; l’altra volta, a stuprare le candide anime dei discepoli maomettani, sarebbe stata l’odiata America “crociata e giudea”; altre volte ancora dei film, altre ancora delle magliette, altre ancora chissà. Intanto ci ammazzano. E ci ammazzano come si ammazza una gallina. Senza pietà. E noi stiamo seduti, rimbambiti dalla paura e dal “politically correct”, davanti alla televisione, o davanti ad un giornale aperto, a farci convincere – dai pennivendoli occidentali impauriti – che, in realtà, l’islam è una “grande religione di pace”. E qualcuno, oramai completamente rintronato dalla menzogna, ci crede per davvero. Proprio mentre scorrono le immagini di sangue e terrore sugli schermi, proprio mentre leggiamo dei cristiani bruciati nelle chiese, proprio mentre ci tornano alla memoria le immagini, folli e disperate, dell’Undici Settembre. Con tutta questa paura di essere oggetto della violenza, completamente folle, degli islamici, stiamo rinunciando volontariamente alla libertà di espressione: con il beneplacito di quelli che dovrebbero essere i nostri uomini di cultura, i nostri politici, i nostri artisti. Così facendo ci spazzeranno via. Emanuele Pozzolo

martedì 17 aprile 2012

Vipere e uomini



Don Camillo, una sera, stava passeggiando per la strada del mulino fumando il suo sigaro e rimirandosi la primavera in fiore, quando si trovò tra i piedi Peppone.
Parlarono del tempo e della campagna, ma si capiva lontano un miglio che Peppone aveva qualcosa da sputar fuori.
E, a un bel momento, sputò:
“Sentite un po’, don voi. Si può parlare due minuti da uomo a uomo e non da uomo a prete?”
Don Camillo si fermò a guardarlo.
“Cominciamo male” osservò don Camillo. “Questo tuo è un parlare da somaro a uomo.”

Ed è così, con questo spirito di rustica semplicità e di genuina simpatia, che Giovannino Guareschi si immaginò uno dei tanti dialoghi vivaci resi vivi nell’indimenticabile ed indimenticata saga di Don Camillo. Le parole degli scritti di Guareschi meritano di essere riproposte, di tanto in tanto, alla nostra attenzione: perché sono tremendamente attuali.
E’ possibile fare, di quel grande pensatore cristiano che fu Guareschi, un nostro compagno di viaggio, ancora oggi, riscoprendo alcune memorabili sue riflessioni. Come quella sopra proposta: che evidenziava ieri, come ben potrebbe evidenziar tutt’oggi, l’importanza fondamentale di vedere negli uomini di Chiesa, per l’appunto, degli uomini. Uomini capaci di slanci di eroismo, così come di errori gravi. La tendenza all’errore è, in fin dei conti, il minimo comune denominatore dell’essenza umana: e la conseguenza dell’umano errore, spesso, genera quel male che porta sofferenza. Lo insegna la storia e lo comprendiamo leggendo i giornali, soprattutto negli ultimi tempi. E anche quella rabbia che ribolle dentro quando abbiamo innanzi agli occhi certe offese alla natura dell’uomo, anche quella, è umana. Troppo umana. Ma è proprio su questo punto che Guareschi ci educa alla via cristiana, in un altro magnifico dialogo tra l’energico Don Camillo e il Gesù della croce.

“Gesù,” disse al Cristo “qui non c’è che una cosa: trovarli e impiccarli.”
“Don Camillo,” rispose il Cristo “dimmi un po’: se ti duole la testa, tu te la tagli per guarire il male?”
“Però le vipere velenose si schiacciano!” gridò don Camillo.
“Quando il Padre mio ha creato il mondo ha fatto una distinzione precisa fra animali e uomini. Il che significa che tutti coloro che appartengono alla categoria degli uomini rimangono sempre uomini, qualunque cosa essi facciano, e vanno perciò trattati da uomini. Altrimenti, invece di scendere in terra per redimerli facendomi mettere in croce, non sarebbe stato molto più semplice iniettarli?”.

Emanuele Pozzolo

venerdì 27 gennaio 2012

La cultura di destra

Bisogna mettere in chiaro che, per l’uomo di destra, i valori culturali non occupano quel rango eccelso cui li innalzano gli scrittori di formazione razionalistica. Per il vero uomo di destra, prima della cultura vengono i genuini valori dello spirito che trovano espressione nello stile di vita delle vere aristocrazie, nelle organizzazioni militari, nelle tradizioni religiose ancora vive e operanti.Prima sta un certo modo di essere, una certa tensione verso alcune realtà, poi l’eco di questa tensione sotto forma di filosofia, arte, letteratura.In una civiltà tradizionale, in un mondo di destra, prima viene lo spirito vivente e poi la parola scritta.Solo la civilizzazione borghese, scaturita dallo scetticismo illuministico, poteva pensare di sostituire allo spirito eroico ed ascetico il mito della cultura, la dittatura dei philosophes.Il democratico ha il culto della problematica, della dialettica, della discussione e trasformerebbe volentieri la vita in un caffé o in un parlamento. Per l’uomo di destra, al contrario, la ricerca intellettuale e l’espressione artistica acquistano un senso soltanto come comunicazione con la sfera dell’essere, con un qualcosa che — comunque concepito — non appartiene più al regno della discussione ma a quello della verità. Il vero uomo di destra è istintivamente homo religiosus non nelsenso meramente fideistico-devozionale del termine, ma perché misura i suoi valori non col metro del progresso ma con quello della verità.“Essere conservatori — ha scritto Moeller van den Bruck — non significa dipender dall’immediato passato, ma vivere dei valori eterni”.

Adriano Romualdi