lunedì 31 maggio 2010

Ripensare lo Stato in chiave federalista


All’Italia serve rimettere mano alla Costituzione: l’architettura istituzionale progettata dall’Assemblea costituente del 1946 merita un’approfondita riflessione, anche alla luce delle nuove sfide politiche che il nuovo millennio globalizzato ha lanciato all’idea stessa dello Stato-nazione di derivazione illuminista e risorgimentale.
E’ evidente che la “macchina istituzionale” italiana è troppo lenta ed inadeguata per rispondere in modo efficace ai bisogni del nostro Paese: i numerosi passaggi tecnici e le procedure eccessivamente arzigogolate che il nostro attuale ordinamento repubblicano impone alla politica, prima di poter avviare un momento di riforma profonda del sistema, sono da superare.
La paralisi riformista che interessa l’Italia può essere sorpassata solo con un’iniezione di decisionismo e di autonomia all’interno dell’ordinamento istituzionale italiano. Le garanzie democratiche pensate e costituzionalizzate, dai “padri costituenti”, in un clima storico di pericolo “totalitario” vanno, oggi, rilette alla luce delle necessità politiche contingenti e future.
Non serio né saggio credere che la Costituzione italiana sia intangibile e immodificabile: il miglior modo per salvaguardare la sostanza delle cose, talvolta, è proprio modificarle nella forma. Gli strumenti istituzionali di cui lo Stato italiano dispone vanno ripensati al più presto in chiave federalista: per poter fornire un maggior grado di autonomia e un più marcato livello di decisionismo locale ai gangli di istituzionali di maggiore prossimità territoriale.
Quel che urge all’Italia è anche una flebo di “responsabilità politica”: è necessario semplificare le procedure istituzionali, i passaggi burocratici e snellire i centri decisionali così da poter più facilmente assegnare la precisa responsabilità di talune scelte politiche ai reali ideatori delle stesse.
La classe politica italiana, dal periodo risorgimentale ad oggi, ha vissuto nell’illusione di poter scaricare le responsabilità di certe decisioni a livelli diversi: il Governo nazionale scarica il barile sulle Regioni, le Regioni scaricano il barile sugli enti amministrativi, provinciali e comunali, e questi ultimi scaricano, ovviamente, sui cittadini.
E chi paga, in fin dei conti, sono sempre i cittadini: famiglie, lavoratori e imprese. E’ proprio da qui che bisogna partire per ripensare l’architettura istituzionale e amministrativa del nostro Stato: la sovranità deve salire dal territorio e l’autorità dello Stato centrale non deve essere un postulato indiscutibile, ma deve essere il risultato della cooperazione delle varie sovranità regionali.
In discussione, di questi tempi, non deve essere messo solo il malfunzionamento superficiale della nostra macchina statuale: urge riflettere e riformare in profondità anche il concetto stesso di sovranità derivante dal popolo e dal territorio.
Il Federalismo non è una gentile concessione dello Stato centrale alla “periferia”: il Federalismo è un diritto sacrosanto che ogni popolo ha di auto-determinare il suo cammino nella storia. Partendo da questo punto di vista, è evidente che solo con la concessione di maggiore autonomia politica ed economica alle “periferie” il “centro” avrà la certezza logica di un accrescimento automatico di responsabilità.
Il Federalismo, detto volgarmente, conviene a tutti: conviene al Nord che potrà trattenere sul territorio più risorse rispetto a quelle di cui, tutt’ora, viene depredato da Roma; conviene a Roma che vedrà automaticamente crescere il grado di virtuosità degli enti periferici (perché risponderanno direttamente della loro gestione ai cittadini); e conviene pure al popolo del Sud che potrà finalmente liberarsi della sua classe dirigente clientelare e mafiosa che ha, negli anni, rallentato e soffocato lo sviluppo del meridione.
La storica lotta istituzionale tra “potere centrale” e “poteri periferici” è, in ultima analisi, lo scontro tra due fazioni politiche ben determinate: da una parte ci sono i sostenitori della politica asfissiante e totalitaria di derivazione giacobina e, dall’altra parte, ci sono i popoli che non hanno altra ambizione se non quella di vivere in pace in uno Stato normale.
E’ giunta l’ora in cui il nostro popolo sente l’insopprimibile bisogno di libertà e di serietà: la gente, forse, è anche disposta a fare sacrifici, anche di natura fiscale, ma a patto di vedere davvero cambiare le cose.
Non si può più tollerare uno Stato che getta al vento i soldi pubblici, non si può più tollerare uno Stato che privilegia gli ultimi arrivati nella concessione dei sussidi sociali, non si può più tollerare uno Stato che lascia a piede libero assassini e terroristi, non si può più tollerare uno Stato che ruba al Nord più della metà di quello che il Nord produce, non si può più tollerare uno Stato che concede la costruzione di avamposti dell’islamismo terrorista sul nostro territorio.
Tutto questo deve cambiare: la gente chiede risposte, le invoca, le pretende.
La classe politica deve essere in grado di ascoltare – proprio come sa fare la Lega Nord – il sentire della gente. La classe politica deve allenarsi, dopo aver ascoltato attentamente il popolo, a trovare risposte soddisfacenti. Ma la gente non vuole risposte di carta o di vento, risposte di parole: la gente vuole i fatti, concreti.
Come disse a chiare lettere Umberto Bossi: “La Lega non si interessa al potere come tale. Non pensa solo a conservarlo, ma se ne serve per mettere in pratica certe idee. Noi non cerchiamo gli applausi del pubblico. Mai la superficialità ha prevalso sui progetti di lungo impegno, capaci di trasformare la società. Questo è il nostro stile, ruvido magari, ma onesto. Questa è la nostra fede”.
E’ proprio per questa fede, che poi è amore della libertà, che la Lega sta quotidianamente dalla parte della gente, con la gente: per difendere quel sogno concreto ed epocale che si chiama Federalismo.
Quel sogno che, grazie alla Lega, sta progressivamente diventando realtà.

Emanuele Pozzolo

mercoledì 19 maggio 2010

La cittadinanza è l'ultima frontiera di civiltà


Si sente, sempre più spesso, molta gente che parla del tema della “cittadinanza” come se stesse giocando a carte. C’è chi vuole estendere velocemente la cittadinanza agli stranieri presenti sul territorio nazionale e c’è chi bolla come “iniqui” gli attuali tempi di attesa, previsti dalla legge, per l’accoglimento dell’istanza per l’ottenimento della cittadinanza italiana.
Proprio attorno al concetto di “cittadinanza” si sta scatenando un dibattito che merita di essere analizzato con serietà e pacatezza, cercando di andare al di là degli ideologismi fine a se stessi. Anzitutto è utile comprendere di cosa si parla quando si dice o si scrive “cittadinanza”: la cittadinanza è quello status giuridico che qualifica la condizione della persona fisica alla quale l'ordinamento giuridico di uno stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici.
La cittadinanza non è dunque un orpello: è anzi la premessa giuridica tramite la quale un soggetto entra a far parte, a pieno titolo, di una comunità nazionale. La cittadinanza non può essere vista come uno strumento utile all’integrazione dello straniero, proprio perché la cittadinanza non va letta come uno “strumento”: il diventare cittadini italiani non può essere la premessa per una compiuta integrazione culturale e sociale, bensì deve essere il punto d’arrivo del percorso di assimilazione giuridica e culturale del modello comunitario del paese ospitante.
La concessione della cittadinanza ad un immigrato deve essere inquadrata più correttamente entro un’ottica di premio e di traguardo rispetto ad un percorso attuato con serietà, rigore e convinzione da parte dell’aspirante nuovo cittadino. Concedere la “cittadinanza” di un dato Stato ad un elemento allogeno è atto giuridico di forte rilevanza politica perché significa riconoscere che il soggetto originariamente “straniero” ha compiuto un percorso, di integrazione o di assimilazione, che ha avuto come sbocco la “nazionalizzazione” culturale e sociale del soggetto stesso.
Concedere la cittadinanza italiana ad un marocchino, un senegalese, un cinese, un pakistano o un turco significa insomma riconoscere che quel soggetto da “elemento esterno” si è trasformato in “elemento interno” alla nostra comunità nazionale. E’ chiaro che, a supporto di un riconoscimento politico di questo tipo, debbano presentarsi dei fatti, degli elementi concreti, delle prove – per utilizzare un linguaggio processuale – volte a testimoniare il presunto percorso integrativo dell’aspirante nuovo cittadino.
Non può bastare il tempo a prova dell’avvenuta integrazione o assimilazione dell’immigrato nel nostro tessuto comunitario: servono altri elementi ben più concreti e vitali, elementi che possano davvero produrre nella comunità nazionale ospitante la certezza del definitivo compimento di un processo di integrazione.
E’ fondamentale che il dato cronologico – senza subire velocizzazioni o facilitazioni – continui a fungere da primo “filtro” all’interno di una seria normativa sulla concessione della cittadinanza: ma accanto a questo primo requisito legato al tempo è necessario sviluppare altre forme di valutazione legate alla condotta giuridica, alla compatibilità religiosa e culturale e alla conoscenza linguistica dei soggetti che aspirano ad ottenere la cittadinanza italiana.
Per entrare a far parte di una nuova “patria” è indispensabile riuscire a dimostrare un interesse e un impegno concreto sulla strada della condivisione storica e valoriale dell’identità della comunità di cui si vorrebbe divenire parte integrante. Non vi possono essere scorciatoie sulla via dell’ottenimento della cittadinanza, perché ogni velocizzazione impressa ad un fenomeno delicato e serio, come quello in oggetto, non farebbe altro che produrre danni inenarrabili al concetto stesso di “comunità nazionale”.
Il concetto di “comunità nazionale”, in un paese come l’Italia, lascia già alquanto a desiderare: l’intrusione forzata di elementi esterni alla cultura italiana nel consesso comunitario nostrano potrebbe definitivamente far venire meno ogni residuo barlume di identità “nostra”.
E’ per questa ragione – anche difensiva e conservativa della nostra identità storica, religiosa e culturale – che è possibile pensare ad un ulteriore “filtro federale” sulla strada per l’ottenimento della cittadinanza italiana: potrebbe prevedersi una sorta di esame propedeutico regionale, che verifichi le conoscenze e le compatibilità culturali di base, al fine dell’ottenimento della cittadinanza italiana. E potrebbe, inoltre, prevedersi una possibile deroga costituzionale a discrezione di ogni singola Regione volta a valutare una possibile maggiore tempistica necessaria all'ottenimento della cittadinanza, partendo da un limite minimo nazionale di dieci anni di continuativa e legale presenza lavorativa sul suolo italiano.
E’ necessario valutare con estrema cautela tutti gli aspetti che interessano a formare la “personalità sociale” degli ipotetici nuovi cittadini italiani: anche al fine di porre un argine invalicabile per tutte quelle religioni o culture che si presentano come direttamente antitetiche ai valori su cui si fonda la nostra civiltà cristiana occidentale.
E’ tempo di serrare i ranghi delle nostre patrie per difendere le nostre società dall’ondata di globalizzazione asfissiante che rischia di sbriciolare ogni legame con la storia, con il sangue e con l’identità.

Emanuele Pozzolo

martedì 4 maggio 2010

Salviamo la politica


La politica di oggi, troppo spesso, non appassiona più perché è troppo contaminata dagli affari, dalle prebende e dagli interessi personali. Raramente s’incontra un uomo politico capace di parlare al cuore della gente, capace di suscitare emozioni e trasmettere idee. Per gli uomini e le donne del terzo millennio globalizzato il sostantivo “politico” è diventato sinonimo di “affarista”.
Oggi è francamente difficile, se non impossibile, convincere le persone, soprattutto i giovani, che la politica è lo spazio ideale in cui si confrontano principi ed idee per la realizzazione di una società giusta: i cittadini guardano alla politica con sempre meno interesse e sempre più diffidenza. Troppi uomini politici, a livello nazionale così come a livello locale, sfruttano le cariche istituzionali, a loro conferite in nome del popolo, per raggruzzolare qualche manciata di denari.
La politica di oggi, non solo quella italiana, sta volando troppo in basso, talmente rasoterra che rischia di sprofondare. Non si tratta di facile moralismo borghese da salotto e, si badi bene, non si tratta nemmeno di giustizialismo forcaiolo: è chiaro a tutti che l’esercizio del potere pone, da sempre, coloro che lo esercitano in una posizione di perenne tentazione. Quando si gestiscono milioni e milioni di euro, quando si è consapevoli che da una propria decisione possono dipendere sviluppi economici di una certa rilevanza, quando si ha a che fare con l’impresa e la finanza, lì, il rischio di commistione tra politica e affari è elevato.
Molto spesso, in Italia come altrove, la politica invece che rappresentare – come dovrebbe essere – lo spazio pubblico in cui si confrontano e si realizzano le idee, si è trasformata nel luogo prediletto dello scambio clientelare: un “do ut des” che puzza di marcio e che spesso rende irrespirabile l’aria circostante le pubbliche Istituzioni.
Il rapporto tra la politica e i cittadini si fa, via via, ogni giorno più difficile. Le ragioni della sempre più marcata distanza che la gente dimostra rispetto alla “casta politica” non sono solo da ascrivere alla diffusa “logica affaristica” che muove troppi politicanti: non è solo colpa degli scandali, della corruzione e delle mazzette se gli italiani votano sempre meno e sempre meno si interessano della politica.
Il vero problema della politica dei nostri giorni è legato in modo indissolubile anche alla “comprensibilità” della politica stessa: i cittadini, gli uomini, le donne, i ragazzi, le ragazze, i padri, le madri e i nonni di questo nostro paese non capiscono più il linguaggio che utilizzano i politici. Alla gente normale, la gente che si sveglia presto al mattino, lavora, sgobba e porta a casa lo stipendio ogni mese, non interessano tanto le “parole” dei politici, interessano solo i “fatti”. E i fatti, talvolta, latitano: tanto a sinistra quanto a destra.
La gente vorrebbe vivere in un paese con dei treni, non dico belli e puntuali, ma almeno decenti e puliti; la gente vorrebbe vivere in un paese con degli ospedali attrezzati e funzionanti; la gente vorrebbe vivere in un paese con i delinquenti chiusi in carcere e con i poliziotti in strada; la gente vorrebbe vivere in un paese con il crocifisso ben saldo al muro delle aule scolastiche. Niente di ché insomma: nessuna rivoluzione cruenta, nessun cambio vorticoso, nessuna scossa. Solo fatti: che vadano nella direzione che vuole la gente.
Qualcuno, forse, potrebbe dire che è basso “populismo”. Nient’affatto, è democrazia.
Perché “democrazia” non è sinonimo solo di parate anti-fasciste, di sperticate lodi alla Costituzione e di battibecchi televisivi: democrazia è anzitutto realizzare quello che il popolo vuole, nell’ambito della legge naturale e della tradizione della propria civiltà.
E’ necessario riscoprire al più presto un’autentica passione popolare per salvare la politica dalla sua fine: è necessario comprendere che la più importante “riforma” che la politica può attuare non passa per le pur auspicabili modifiche degli equilibri costituzionali ma, molto più semplicemente, passa per il rapporto diretto tra il “politico” e il “cittadino”. Ecco cosa c’è da riscoprire: la gente, la nostra gente.
C’è una ragione, infatti, alla base del crescente consenso, sostanzialmente trasversale, che la Lega Nord sta ottenendo da qualche anno a questa parte: questa ragione risiede nella grande capacità di ascolto e di risposta, in termini di fatti, che la classe politica leghista – partendo da Umberto Bossi e arrivando fino all’ultimo dei militanti – ha dimostrato di sviluppare nel tempo.
La Lega dialoga con i cittadini, ascolta le loro esigenze e comprende le loro paure: è per questo che è in grado di fornire delle risposte politiche valide, concrete e realizzabili. Non ci sono teorie, sovrastrutture o programmi immodificabili, ci sono solo solidi e sani principi. Come diceva Joseph de Maistre la politica è una “scienza sperimentale”: così la buona politica non deve essere ideologica e settaria ma deve saper cogliere, partendo da valori condivisi e ascoltando le istanze dei tempi, le necessità vere del popolo.
E’ esattamente questo che manca alla politica di oggi: la capacità di farsi interprete e megafono risolutore dei bisogni della gente. Dalle necessità più piccole ai più grandi problemi del paese: urge una nuova classe politica che sappia davvero parlare alla gente, magari con parole semplici ma appassionate, sincere, vere.

Emanuele Pozzolo