mercoledì 19 maggio 2010

La cittadinanza è l'ultima frontiera di civiltà


Si sente, sempre più spesso, molta gente che parla del tema della “cittadinanza” come se stesse giocando a carte. C’è chi vuole estendere velocemente la cittadinanza agli stranieri presenti sul territorio nazionale e c’è chi bolla come “iniqui” gli attuali tempi di attesa, previsti dalla legge, per l’accoglimento dell’istanza per l’ottenimento della cittadinanza italiana.
Proprio attorno al concetto di “cittadinanza” si sta scatenando un dibattito che merita di essere analizzato con serietà e pacatezza, cercando di andare al di là degli ideologismi fine a se stessi. Anzitutto è utile comprendere di cosa si parla quando si dice o si scrive “cittadinanza”: la cittadinanza è quello status giuridico che qualifica la condizione della persona fisica alla quale l'ordinamento giuridico di uno stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici.
La cittadinanza non è dunque un orpello: è anzi la premessa giuridica tramite la quale un soggetto entra a far parte, a pieno titolo, di una comunità nazionale. La cittadinanza non può essere vista come uno strumento utile all’integrazione dello straniero, proprio perché la cittadinanza non va letta come uno “strumento”: il diventare cittadini italiani non può essere la premessa per una compiuta integrazione culturale e sociale, bensì deve essere il punto d’arrivo del percorso di assimilazione giuridica e culturale del modello comunitario del paese ospitante.
La concessione della cittadinanza ad un immigrato deve essere inquadrata più correttamente entro un’ottica di premio e di traguardo rispetto ad un percorso attuato con serietà, rigore e convinzione da parte dell’aspirante nuovo cittadino. Concedere la “cittadinanza” di un dato Stato ad un elemento allogeno è atto giuridico di forte rilevanza politica perché significa riconoscere che il soggetto originariamente “straniero” ha compiuto un percorso, di integrazione o di assimilazione, che ha avuto come sbocco la “nazionalizzazione” culturale e sociale del soggetto stesso.
Concedere la cittadinanza italiana ad un marocchino, un senegalese, un cinese, un pakistano o un turco significa insomma riconoscere che quel soggetto da “elemento esterno” si è trasformato in “elemento interno” alla nostra comunità nazionale. E’ chiaro che, a supporto di un riconoscimento politico di questo tipo, debbano presentarsi dei fatti, degli elementi concreti, delle prove – per utilizzare un linguaggio processuale – volte a testimoniare il presunto percorso integrativo dell’aspirante nuovo cittadino.
Non può bastare il tempo a prova dell’avvenuta integrazione o assimilazione dell’immigrato nel nostro tessuto comunitario: servono altri elementi ben più concreti e vitali, elementi che possano davvero produrre nella comunità nazionale ospitante la certezza del definitivo compimento di un processo di integrazione.
E’ fondamentale che il dato cronologico – senza subire velocizzazioni o facilitazioni – continui a fungere da primo “filtro” all’interno di una seria normativa sulla concessione della cittadinanza: ma accanto a questo primo requisito legato al tempo è necessario sviluppare altre forme di valutazione legate alla condotta giuridica, alla compatibilità religiosa e culturale e alla conoscenza linguistica dei soggetti che aspirano ad ottenere la cittadinanza italiana.
Per entrare a far parte di una nuova “patria” è indispensabile riuscire a dimostrare un interesse e un impegno concreto sulla strada della condivisione storica e valoriale dell’identità della comunità di cui si vorrebbe divenire parte integrante. Non vi possono essere scorciatoie sulla via dell’ottenimento della cittadinanza, perché ogni velocizzazione impressa ad un fenomeno delicato e serio, come quello in oggetto, non farebbe altro che produrre danni inenarrabili al concetto stesso di “comunità nazionale”.
Il concetto di “comunità nazionale”, in un paese come l’Italia, lascia già alquanto a desiderare: l’intrusione forzata di elementi esterni alla cultura italiana nel consesso comunitario nostrano potrebbe definitivamente far venire meno ogni residuo barlume di identità “nostra”.
E’ per questa ragione – anche difensiva e conservativa della nostra identità storica, religiosa e culturale – che è possibile pensare ad un ulteriore “filtro federale” sulla strada per l’ottenimento della cittadinanza italiana: potrebbe prevedersi una sorta di esame propedeutico regionale, che verifichi le conoscenze e le compatibilità culturali di base, al fine dell’ottenimento della cittadinanza italiana. E potrebbe, inoltre, prevedersi una possibile deroga costituzionale a discrezione di ogni singola Regione volta a valutare una possibile maggiore tempistica necessaria all'ottenimento della cittadinanza, partendo da un limite minimo nazionale di dieci anni di continuativa e legale presenza lavorativa sul suolo italiano.
E’ necessario valutare con estrema cautela tutti gli aspetti che interessano a formare la “personalità sociale” degli ipotetici nuovi cittadini italiani: anche al fine di porre un argine invalicabile per tutte quelle religioni o culture che si presentano come direttamente antitetiche ai valori su cui si fonda la nostra civiltà cristiana occidentale.
E’ tempo di serrare i ranghi delle nostre patrie per difendere le nostre società dall’ondata di globalizzazione asfissiante che rischia di sbriciolare ogni legame con la storia, con il sangue e con l’identità.

Emanuele Pozzolo

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